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L’arroganza dei nuovi Casalesi e il tesoro dei clan inghiottito da un buco nero

Le indagini sul gruppo di Mezzero evidenziano la spaccatura tra i vertici dei Casalesi e gli ex ufficiali: i patrimoni dei capi sono ormai al sicuro, non hanno più bisogno degli ex soldati.
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Eccoli, i nuovi casalesi. Arroganti e violenti, uguali ai camorristi di un secolo fa, grassatori da strada, protervi nel voler imporre oggi – a dispetto del lunghissimo tempo trascorso – regole che non esistono più, che nessuno pensa più di rispettare. Eccoli, nell’impietoso ritratto tracciato dall’ultima inchiesta di carabinieri di Caserta e Dda di Napoli, che segna anche un vistoso ritorno alle indagini sul campo: certo, il racconto dei pentiti, ma utilizzato per tracciare un contesto e rafforzare un’appartenenza. Più abito che corpo, con i fatti-reato documentati invece da intercettazioni telefoniche, microspie, trojan e telecamere. E anche tanti appostamenti.

Ed eccoli, dunque, nelle loro miserie criminali, uguali a com’erano più di vent’anni fa, quando entrarono in carcere per uscirne di recente, molto più anziani ma fuori dal mondo: Antonio Mezzero e la sua famiglia. Pierino Ligato, Carlo Bianco e Giovanni Diana, e tutti gli altri, quelli che furono le seconde e terze file del clan che si fece mafia, più simili a latrones delle paludi dei Mazzoni che ai sensali e ai campieri della camorra che si industrializzò con il terremoto. Riguadagnata la libertà, i vecchi/nuovi casalesi hanno provato a rimettere in piede un sistema basato sul ricatto più che sull’intermediazione e sull’industria della protezione. Tornati a vessare, per la verità con scarsissimi risultati, agricoltori, piccoli commercianti, inquilini morosi, biscazzieri. Molto pericolosi per la pubblica incolumità (lo sono sempre stati, a giudicare dalla mole di condanne collezionate nel tempo) ma incapaci (o poco interessati) di flirtare con la politica e la grande impresa.

La spaccatura tra i vertici e gli ex capizona del cartello

Dunque una bella notizia, con il vistoso arretramento di ex capozona e di esattori del racket a una funzione esclusivamente estorsiva, da delinquenti più facili da riconoscere e da tenere a bada. Anche nelle loro velleità di ricostituire un clan più ramificato e squadriglie divise per zone e competenze: le intercettazioni documentano, infatti, i ragionamenti intorno ai numeri del loro piccolo esercito e la riproposizione delle suddivisioni territoriali che erano in vigore prima dei loro arresti e dei processi, una vita fa. Con una sostanziale differenza: le richieste estorsive sono andate praticamente tutte a vuoto.

E con un’altra differenza: la vicinanza ai capi del cartello, Francesco Schiavone ma più ancora alla famiglia Zagaria, appare più auspicata che effettiva. Il fratello di Michele Zagaria, Carmine, viene citato in un colloquio ma quando vanno a cercarlo per un incontro, da tenersi nella profumeria della sorella, trovano il negozio chiuso. Chiuso da settimane. E non lo sapevano. E la richiesta di arresto di Carmine Zagaria è stata rigettata per mancanza di indizi.

Il tesoro mai trovato dei capi dei Casalesi

Se quest’ultima ordinanza fotografa una situazione reale, allora la notizia è un po’ diversa e anche un po’ meno bella. Perché starebbe a significare che tra i capi – Schiavone, Zagaria, Bidognetti – e quelli che furono ufficiali e soldati dei loro eserciti si è creata una spaccatura insormontabile: i primi non hanno, dunque, più bisogno degli altri per rimpinguare le casse, far girare i soldi, garantire stipendi. I loro asset sono al sicuro altrove, non a disposizione del clan per garantire la sopravvivenza degli affiliati e delle loro famiglie. Al sicuro e ormai imprendibili.

Se per la famiglia di Schiavone-Sandokan l’inchiesta sugli appalti di Rfi (i processi sono in corso) hanno indicato una traccia e una sorgente di denaro attiva fino a pochissimi anni fa, non altrettanto è accaduto per quella degli Zagaria (si è trovato qualcosa in Romania e nulla più), dei quali si racconta di favolose ricchezze in Spagna e altri paesi dell’est europeo. Ma, soprattutto, sul fronte giudiziario niente si conosce degli investimenti massicci in settori strategici (servizi alle imprese, sanità, nuove tecnologie) figli di quell’imponente passaggio di risorse economiche e know how avvenuto dopo la scomparsa di Bardellino.

Tracce rinvenibili in vecchie informative, nei sussurri di chi c’era, in indagini abortite sul nascere ma ormai inutilizzabili. Una voragine, un buco nero che ha inghiottito, per insipienza o per colpa, i segreti delle ricchezze del clan che si fece mafia, che è ancora attivo e che ha stravolto il territorio e il destino di Terra di Lavoro.

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Rosaria Capacchione, giornalista. Il suo lavoro di cronista giudiziaria e le inchieste sul clan dei Casalesi le sono costate minacce a causa delle quali è costretta a vivere sotto scorta. È stata senatrice della Repubblica e componente della Commissione parlamentare antimafia.
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